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Ritorno a Savana. 223

— E se costruissero delle zattere? — disse Alvaro, senza cessare di dar dentro a tutta forza, nelle pagaie.

— Non so se sappiano fabbricarle, quantunque i Caheti siano degli abilissimi canottieri.

— Mi avete detto che sono formidabili quei selvaggi.

— I più valorosi di quanti abitano le foreste brasiliane, signore. —

Diaz, che conosceva da molti anni le tribù brasiliane, diceva il vero. Se gli Eimuri erano temibili, i Caheti godevano fama di essere i più coraggiosi ed i più temibili.

Formavano allora una tribù potentissima, che aveva villaggi sia nell’interno che sulle rive del mare e che disponeva di moltissime canoe capaci di contenere perfino quindici persone.

I portoghesi dovevano più tardi provare l’audacia di quei selvaggi i quali si erano alleati coi francesi che tentavano di prendere possesso d’una parte del Brasile e soprattutto d’impadronirsi della magnifica baia di Rio Janeiro.

Ed infatti fu un vero miracolo se Pereira che si può considerare come il fondatore delle colonie portoghesi, riuscì a sfuggire agli assalti di quei valorosi selvaggi che lo avevano già circondato, ammazzandogli un gran numero di soldati.

Arrancando con lena affannosa, la canoa giunse ben presto presso le prime isolette che erano coperte d’una vegetazione foltissima che impediva ai selvaggi di poter seguire cogli sguardi la direzione presa dai fuggiaschi.

— Tenetevi sempre dietro queste terre, — disse il marinaio. — Mi preme che i Caheti non vedano dove noi ci arresteremo.

— È lontano ancora l’isolotto che avete scoperto? — chiese Alvaro.

— Ci giungeremo fra qualche ora.

— È dunque immensa questa savana?

— Vastissima signore. Non sono riuscito a scoprire la sponda opposta.

— Animo dunque, Garcia, — disse Alvaro. — Dopo ci riposeremo. —

Le isolette si succedevano alle isolette, ingombre di paletuvieri rossi e di altre piante acquatiche, non erano però altro che banchi di fango, appena emersi, sui quali un uomo non avrebbe potuto posare i piedi senza correre il pericolo di sprofondare.