Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
218 | Capitolo Ventitreesimo. |
CAPITOLO XXIII.
Ritorno alla Savana.
La savana era deserta. Solamente dei trampolieri sonnecchiavano sulle foglie acquatiche delle victoria e qualche coppia di pappagalli chiacchierava sulla cima degli alberi che circondavano quell’immenso stagno dalle acque putride e nauseabonde.
Non si vedeva nemmeno un jacarè, quegli assidui frequentatori delle acque stagnanti e delle paludi.
— Gli Eimuri non devono essere ancora giunti fino qui, — disse Alvaro. — Avremo il tempo di rifugiarci sull’isolotto che abbiamo scoperto.
— Non prima d’aver fabbricata la pentola promessa dal signor Diaz, — disse il mozzo.
— Ah! È vero, — rispose il marinaio sorridendo. — Ci tieni ad averla.
— Senza avere poi nulla da metterci dentro, — osservò Alvaro.
— I trampolieri abbondano sull’isolotto, — disse il marinaio. — Ho anzi veduto anche dei tatù che ci daranno un brodo squisito, se saremo lesti a prenderli.
— E delle testuggini? — chiese Garcia.
— Sì, qualche careto mi pare d’averla scorta. Ah! Là, guardate, ecco l’albero delle stoviglie. —
La pianta che indicava era magnifica, alta più di trenta metri, dal tronco slanciato e piuttosto esile.
La moquilea utilis tale è il nome dato a quegli utilissimi alberi dai botanici, s’incontra sovente nelle foreste brasiliane dove è assai ricercata dagl’indiani per fabbricare delle ottime stoviglie.
Essendo i terreni brasiliani piuttosto poveri di silici, materia necessaria per rendere più consistenti i vasi, gl’indiani ricorrono alla moquilea.
Senza abbattere l’albero, il quale d’altronde ha delle fibre tenacissime, impregnate d’una quantità straordinaria di silice che guasta le scuri meglio temprate, staccano semplicemente la corteccia.
La carbonizzano, poi la polverizzano servendosi d’un mortaio