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172 | Capitolo Diciottesimo. |
— Io non lo so; il fatto è che mi trovo debolissimo. Quella bestia deve avermi fatto perdere molto sangue.
— Ed anch’io signore mi sento sfinito, — rispose il mozzo. — E Diaz? E chi ci ha condotti in questa capanna? Che ci abbia portati lui mentre dormivamo? —
Alvaro stava per rispondere, quando un urlìo selvaggio, spaventevole gli giunse agli orecchi.
Quell’urlìo l’aveva udito ancora, sulle rive del fiume, quando gli Eimuri erano comparsi interrompendo bruscamente il pranzo.
Impallidì e si sentì la fronte bagnarsi prima d’un sudore caldo, poi freddo.
— Ci hanno presi! — esclamò con voce soffocata, guardando Garcia con ispavento. — Ora comprendo tutto. Noi siamo prigionieri degli Eimuri!
In quel momento la porta della capanna si aperse e comparve un indiano armato d’una pesantissima clava.
CAPITOLO XVIII.
I Pyaie bianchi.
Quel selvaggio era un uomo di alta statura, senza alcun pelo sul viso, anzi privo perfino delle sopracciglia, ed invece portava i capelli lunghissimi, neri, grossolani ed arruffati.
Aveva il corpo quasi nudo, dipinto in rosso con strisce nere ed azzurre alternate e sulla fronte e sulle gote portava parecchie penne di tucano appiccicate con qualche mastice o con del miele selvatico e che gli davano un aspetto stranissimo.
Sotto il mento portava il barbotto, formato d’un pezzo di diaspro verde e sul petto gli pendeva una collana formata di conchigliette bianche, distintivo dei capi tribù brasiliani.
Appena entrato si era abbassato fino a terra, sporgendo la lingua e dando segni evidenti d’un profondo rispetto, poi si era rialzato pronunciando alcune parole rauche, affatto incomprensibili, che parevano suoni gutturali usciti dalle profondità del petto piuttosto che dalla gola.
Alvaro, che non si era rimesso ancora dal suo spavento, era rimasto immobile, guardando con inquietudine la pesante mazza