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140 Capitolo Quattordicesimo.

— Per quale motivo?

— Se gli Eimuri tornano, udendo le urla di queste scimmie, cercheranno d’ammazzarle e allora ci scopriranno.

— Dobbiamo uccidere quelle ciarlone prima che i selvaggi siano qui. Bisognerebbe salire fino sui più alti rami e finirle a colpi di coltello, impresa difficile e sommamente pericolosa. Io non oserei giammai servirmi dei nostri fucili.

— E le mie armi, non le contate? — chiese Diaz.

— Le vostre armi! — esclamò Alvaro. — Non avete che un tubo che non mi pare possa nemmeno servire come un bastone.

— Allora vi farò vedere quanto possa diventare pericoloso questo tubo, specialmente quando vi metto entro una buona freccia intinta nel sugo mortale del vulrali.

Vulrali! che cos’è?

— Un veleno potentissimo che uccide un uomo in meno d’un quarto di minuto e che fulmina le scimmie. Mi volete vedere alla prova?

— E le scimmie cadranno a terra? In tale caso ci tradiranno egualmente.

— No, — disse il marinaio. — Rimarranno sospese alla loro coda.

Le caraja non si lasciano cadere, anche se sono morte.

Ora vedrete. —

Diaz si tolse dalle spalle quella specie di tubo che fino allora Alvaro aveva scambiato per un bastone o tutt’al più per un giavellotto, quantunque non avesse alcuna punta atta a ferire.

Era la famosa gravatana dei brasiliani, ossia una cerbottana, formata con due pezzi di legno scavati accuratamente e riuniti perfettamente con una fibra di jacitura, assai pesante e lunga un paio di metri.

Nella parte inferiore vi era una specie di mirino formato da una tacca di legno, appiccicata con della resina.

Diaz vi soffiò dentro, poi svolse un pezzo di pelle che portava appeso alla cintura e levò una piccola freccia formata colla nervatura d’una foglia, munita da una parte d’una spina acutissima coperta d’una sostanza bruna e dall’altra fasciata d’un batuffolo di cotone, preso probabilmente dal bombax coïba, albero comunissimo nel Brasile.

— Avvelenata? — chiese Alvaro.

— E con quale veleno! — rispose il marinaio. — I Tupinambi