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88 | emilio salgari |
El-Kabir ed i suoi compagni dinanzi al tembè reale, il quale sorgeva sulla piazza del villaggio.
Il palazzo del sultano consisteva in una immensa capanna con le pareti formate di tronchi d’albero male squadrati ed intonacati di fango, ed in varie tettoie che servivano da magazzini e da ricovero agli schiavi.
Una palizzata circondava quelle abitazioni pullulanti di montoni, di galline faraone e di servi quasi nudi e spalmati di olio di cocco e di burro rancido esalanti dei profumi poco piacevoli pei nasi europei.
Il sultano attendeva gli uomini caduti dal cielo sulla soglia della sua abitazione.
Era un negro molto tarchiato e grassissimo, un po’ attempato, con una faccia larghissima, gli zigomi e le labbra assai sporgenti ed il naso schiacciato.
Aveva sul capo un elmo da pompiere ormai ridotto in pessimo stato, quantunque lucentissimo, e indossava una vecchia divisa di ammiraglio inglese, costume ambito da tutti i tirannelli africani.
Non aveva nè calzoni nè stivali. Viceversa aveva colletto e cravatta di una tinta impossibile a definirsi.
— Gli uomini caduti dal cielo siano i benvenuti nel mio regno — diss’egli guardandoli con viva curiosità. — Voi dovete essere valenti se siete riusciti a domare un uccello così grande.
— La tua Altezza non mi conosce più? — chiese l’arabo facendosi innanzi.
— El-Kabir! — esclamò il monarca, al colmo della sorpresa.
— In persona, Altezza.
— Ti aspettavo, ma non credevo che tu venissi a cavallo di quella bestia volante.
— Chi ti aveva annunciata la mia venuta?
— Altarik — rispose il sultano con un sorriso malizioso.
— Me l’ero immaginato.
Il sultano fece entrare l’arabo, i due europei e Ben-Zuf e fattili sedere su alcune stuoie, fece loro servire un vaso ricolmo