Pagina:Salgari - Il treno volante.djvu/86

84 emilio salgari


— Ben-Zuf non conosce più il suo amico El-Kabir? — chiese l’arabo, sporgendosi innanzi e facendo ondeggiare la bandiera zanzibarese.

— Per Allah nostro Signore! — gridò il capo della scorta.

— I miei occhi vedono e le mie orecchie odono? O sono io già in preda ad un sogno?

— Ben-Zuf vede e ode.

— Allora tu sei proprio El-Kabir?

— Come tu sei Ben-Zuf.

— E gli altri, chi sono? Vedo degli uomini bianchi presso di te.

— Europei miei amici.

— E la bestia che tu monti cos’è?

— Non è una bestia, Ben Zuf; è un pallone, un’altra meravigliosa invenzione dei bianchi. Come sta il Sultano?

— Benissimo.

— Posso salutarlo?

— Anzi, mi aveva ordinato di condurre da lui gli uomini che montano la gran bestia volante o di ucciderli.

— Scendiamo, amici — disse l’arabo: — con questi sultanettti non bisogna scherzare.

— Dobbiamo armarci? — chiese Matteo.

— E portare anche dei doni.

— Chi rimarrà a guardia del pallone?

— Lasceremo i nostri due negri.

— Padrone — disse Sokol, — io ho un amico da salutare.

— Lo rivedrai più tardi se ne avremo il tempo.

— Ho una urgente comunicazione da fargli da parte di un suo parente di Zanzibar.

— La farai un’altra volta.

— No, padrone — disse il negro con tono reciso.

— Cosa vuol dire questo modo di esprimerti? — chiese l’arabo alzando la voce. — Schiavo, obbedisci o ti faccio capire che il padrone sono io!

Sokol, vedendo che l’arabo appoggiava la destra sul calcio