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eliche fossero state fermate non essendovi da lottare contro vento.

La gran corrente dell’aliseo soffiava invariabilmente dall’est all’ovest, anche sopra il continente, quindi non era necessaria alcuna manovra a bordo del treno aereo.

Il territorio appariva sempre di una feracità prodigiosa, e piuttosto scarso di abitanti. I villaggi erano rari e rarissime le capanne isolate.

Invece dovunque si vedevano boschi maestosi, d’un verde cupo e formati da piante svariate.

Qui si vedevano comparire degli enormi mazzi di bambù, stretti alla base, mentre verso la cima si allargavano in pennacchi elegantemente ripiegati, coi fusti lucenti ed affatto cilindrici, a nodi posti ad eguale distanza e coperti di foglie di un verde tenero e sempre oscillanti; più innanzi invece s’alzavano macchioni di felci arborescenti, di datteri selvatici, di fichi sicomori dalle foglie biancastre nella parte inferiore e seminate al disopra da macchie brune; poi gruppi di leguminose con le leggere foglioline merlettate, di acacie giraffe, di palme bellissime, di fusti, contorti di palminee.

Di quando in quando immense cupole vegetali s’alzavano solitarie. Nessuna pianta potrebbe crescere all’ombra di questi giganti delle foreste tropicali ed equatoriali che con i loro innumerevoli tronchi assorbono, come altrettante trombe aspiranti, i succhi vegetali della terra primitiva. Sono i banani, colossi che possono ricoverare sotto la loro ombra una tribù intiera.

In mezzo a quelle piante, il tedesco e l’arabo, che si erano muniti di cannocchiali, scorgevano bande di gazzelle e di antilopi, selvaggina eccellente, che fornisce degli arrosti molto apprezzati anche dagli europei, oppure qualche truppa di giraffe dal collo smisurato e dalle gambe straordinarie e qualche coppia di zebre, specie, di asini bizzarramente rigati in bianco ed in nero con qualche riflesso giallastro.

— Vorrei trovarmi in mezzo a quelle foreste — diceva il te-