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56 | emilio salgari |
pertutto, come se quel temuto mostro fosse per piombare sul villaggio e divorarlo in un boccone assieme agli abitanti.
Qualche volta si trovava fra quei negri anche qualche ardimentoso, il quale afferrava l’arco lanciando qualche freccia per il treno aereo, inoffensiva d’altronde, non potendo giungere a tanta altezza.
I due europei e l’arabo si divertivano immensamente a quelle scene comiche e quando vedevano che lo spavento giungeva al colmo, come per ricompensare quei poveri diavoli, lasciavano cadere qualche manata di biscotti o qualche bottiglia di rhum o qualche collana di perle di vetro.
— Ne faranno dei feticci — disse l’arabo.
— Non certamente delle divinità — osservò il tedesco.
— No; ma talismani preziosi destinati a preservarli dai pericoli o a salvaguardare i loro campi dalla siccità.
— Che prendano noi per divinità?
— Indubbiamente, caro Matteo. Ci crederanno figli della Luna o del Sole.
— Una idea, El-Kabir.
— Di’ su.
— Se nel centro dell’Africa ci spacciassimo per divinità celesti?
— Sarebbe possibile.
— E se ci facessimo adorare? Potremmo fondare un impero pari a quello di Nurambo.
— Non mi fiderei. Preferisco restare il negoziante El-Kabir.
— Ed io un semplice professore — disse il tedesco.
— Eppure l’idea non mi parrebbe cattiva — disse il greco. — Studierò il progetto.
— Sì, studialo pure — disse l’arabo, ridendo. — Sono però convinto che quando avremo raccolto il tesoro dell’inglese, lascerai da parte il progetto e tornerai in Europa a godertelo.
Mentre chiacchieravano e ridevano, il Germania continuava la sua corsa, mantenendo una direzione costante, sebbene le due