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— Non avverto anima viva — rispose l’inglese.

Girarono attorno al capannone del sultano e giunsero nella piazza del mercato. Il Germania si librava sopra le loro teste.

Guardarono se vi era la scala e si accorsero che era stata ritirata.

— Come avvertire Heggia? — chiese Ottone.

— Avete la speranza che sia ancora lassù? — domandò l’arabo.

— Sì, perchè vi brilla la nostra lampada rossa.

— Aspettate.

L’arabo si guardò intorno per accertarsi che non vi fosse alcuno, poi accostò ambe le mani alle labbra e cavò un suono strano che poteva confondersi con l’urlo dello sciacallo.

Un momento dopo un urlo eguale si udiva sulla piattaforma.

— È Heggia che risponde! — esclamò El-Kabir, con voce soffocata.

Una forma umana si era affacciata sul parapetto della piattaforma.

— Siete voi, padrone? — chiese una voce, quella del fedele servo.

— Sì, getta la scala — rispose l’arabo.

La scala di corda si svolse rapidamente cadendo quasi ai piedi dell’arabo.

I tre europei ed El-Kabir l’afferrarono e fecero scendere il Germania fino a terra, balzando lestamente sulla piattaforma.

— Presto, gettate la zavorra! — comandò Ottone.

Dei grossi macigni furono gettati fuori, poi una cassa ripiena di oggetti di scambio del peso di ottanta chilogrammi, quindi due cilindri di acciaio vuoti.

Il Germania, così scaricato, si innalzò rapidamente fino a cinquecento metri, e spinto dal vento e dalle eliche, essendo i motori accesi, si diresse verso la collina del tesoro.

Nessuno se n’era accorto in Kilemba, poichè nessun grido era stato udito.