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il treno volante 223


Matteo e Ottone balzarono in piedi guardandosi l’un l’altro con sgomento.

— Che i negri abbiano assalito Heggia?! — esclamarono.

— Venite! — gridò l’inglese.

Tutti si precipitarono verso l’uscita, percorrendo tutto d’un fiato il corridoio.

Quando si trovarono all’aperto, un grido di rabbia sfuggì dai petti dei tre aeronauti.

Una carovana composta di quaranta o cinquanta negri, guidata da un arabo montato su di un asino, stava entrando in Kilemba.

I negri, secondo il loro uso, salutavano la popolazione scaricando i fucili.

— Altarik! — aveva gridato El-Kabir, impallidendo.

— Siamo perduti! — esclamò Matteo.

— È il vostro nemico? — chiese l’inglese senza commuoversi.

— Sì, è lui — disse Ottone il quale pareva annichilito.

— La cosa è grave — disse l’inglese. — Quell’uomo dirà al sultano che voi lo avete ingannato e che non siamo affatto figli del Sole e della Luna. Io conosco troppo bene il sultano. Diverrà furioso e cercherà di vendicarsi d’essersi lasciato burlare.

— Cosa fare? — chiese Ottone che non sapeva decidere nulla.

— Volete un consiglio? — disse l’inglese.

— Datelo pure.

— Mi avete detto che l’arabo è venuto qui non per salvare me, ma per impadronirsi del tesoro.

— Questo è vero.

— Ebbene, rimaniamo qui a guardia dell’oro.

— Ed il nostro treno aereo?

— Lasciatelo andare pel momento.

— L’arabo me lo prenderà.

— Faccia pure; suppongo che non valga tutto l’oro che si trova qui.

— Nemmeno la decima parte.