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il treno volante 215


— Un uomo bianco come voi?

— Sì.

— È anche lui figlio della Luna?

— Il primogenito.

— Oh, disgraziato che io sono! — urlò il negro.

Ottone assunse un aspetto severo.

— L’hai ucciso? — chiese Ottone, terribile.

— No, no! — si affrettò a dire il capo. — Io non l’ho ucciso, ma non l’ho trattato con quei riguardi che spettavano ad un figlio del Sole e della Luna.

— Dove si trova quell’uomo? Rispondi o il mio mostro divorerà d’un colpo solo tutti i tuoi sudditi.

— È presso di me — balbettò il capo. — Sta tritando del grano.

— Conducimi subito da lui, se ti preme la vita.

— Vieni!

Con un gesto congedò la folla accalcata sulla piazza del mercato, poi condusse i tre aeronauti verso la grande capanna, mentre Heggia si metteva a guardia della scala di corda e dell’àncora con due fucili e una rivoltella.

Appena entrati nella casa del capo, in un angolo videro un uomo bianco, coi capelli e la barba rossa, macilento, magrissimo e coperto solamente da alcuni stracci che non avevano più forma d’abiti. Inginocchiato dinanzi ad una pietra, stava stritolando del mais, guardato da due ragazzi negri, armati di bastoni.

Vedendo entrare i due europei e l’arabo, quel disgraziato si era rizzato mandando un grido di stupore e di gioia, poi era divenuto così pallido da far temere che fosse per cadere svenuto.

— Signori! — esclamò con voce rotta dai singhiozzi.

Non potè più aggiungere parola. Si era appoggiato alla parete, mentre due lagrime gli gocciolavano lungo le scarne gote.

Ottone e Matteo si erano slanciati verso di lui, tendendogli le mani.

— Sono ben lieto di potervi vedere — disse il tedesco, abbracciandolo. — Coraggio, ci siamo noi qui, ormai, e non avete più nulla da temere.