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214 | emilio salgari |
d’avorio e di conchigliette bianche, vociava come un ossesso, alzando ambe le mani verso il treno volante che stava scendendo lentamente.
Ottone si era curvato sul parapetto della navicella, gridando a pieni polmoni:
— Popolo di Kilemba, largo agl’inviati del Cielo che scendono fra voi.
I negri, vedendo calare il mostro, si ritirarono da tutte le parti mandando grida di terrore. Anche il vecchio capo si era allontanato verso la sua immensa capanna, circondato dalla sua scorta armata di lance e di archi.
Quando il Germania fu a venti metri dal suolo, Heggia lanciò l’àncora fra i rami d’un enorme miombo che cresceva in mezzo alla piazza, quindi calò la scala.
Ottone, Matteo e l’arabo scesero, portando le loro armi e alcune cassette contenenti i regali pel sultano.
Vedendo apparire quei due uomini bianchi, la folla si era gettata in ginocchio, continuando ad urlare.
— Genti di Kilemba! — gridò Ottone in arabo. — Vi porto la benedizione del Sole e della Luna.
Il vecchio capo negro si era avanzato lentamente, con esitazione e si era inginocchiato dinanzi ai due europei, dicendo pure in arabo:
— Pembo, sultano di Kilemba, saluta i figli del Sole e della Luna.
Ottone prese le cassette e consegnandole al negro, disse:
— Prendi, il Sole e la Luna ti inviano questi doni.
— Siete dunque amici? — chiese il negro.
— Noi non vogliamo farti alcun male — rispose Ottone. — Il Sole e la Luna proteggono i negri di Kilemba. Perchè la Luna ci ha incaricati di cercare un suo figlio scomparso da qualche anno.
— Un suo figlio! — balbettò il capo, guardando i due europei con terrore.
— E che si trova presso di te.