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guendo il corso dell’Iunguvo, uno dei tanti fiumi che si scaricano in quel bacino.

In quel luogo il lago appariva deserto, non scorgendovisi, in quel momento, alcuna barca. Più al nord invece e verso l’ovest, in direzione di alcune isolette, si scorgevano numerosi punti neri che potevano essere barche di pescatori.

La superficie del lago era tranquilla e rifletteva splendidamente i raggi solari, assumendo delle tinte strane con certi bagliori che accecavano.

Matteo e Ottone, curvi sul parapetto, contemplavano con ammirazione quella vasta distesa d’acqua che pareva salisse verso di loro, senza occuparsi del Germania, il quale continuava a cadere con dei larghi dondolamenti.

Un grido di El-Kabir li avvertì del pericolo.

— Cadiamo!

— Mi ero dimenticato che il nostro treno era invalido — disse Ottone.

— Non siamo che a sessanta metri — disse Matteo. — Dove andremo a posare?

— Vedo laggiù un’isola boscosa — rispose Ottone. — Caleremo sopra di essa.

— È lontana, mi pare.

— Non più di sei miglia.

— Sarà disabitata?

— Te lo dirò più tardi.

— Siamo prudenti — disse El-Kabir. — Le isole del Tanganika sono abitate da pirati sanguinari.

— Siamo bene armati e d’altronde non possiamo attraversare il lago in queste condizioni.

— Mettiamo in movimento i motori? — chiese Matteo.

— Sì, così ci sosterremo meglio. Abbiamo ancora carbone?

— Una decina di chilogrammi — rispose Heggia.

— Accendi i motori e getta l’àncora.

— Ed io mando nel lago qualche cassa.