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146 emilio salgari


— Fa’ presto.

— Non dubitate; fra venti minuti sarò qui. Vi lascio il coltellaccio ed il fucile.

— E tu?

— A me basterà la scure.

Ciò detto, il negro partì di corsa, scomparendo in mezzo agli alberi.

Ottone era salito sulla gran rupe che formava la vetta della collina, onde organizzare la difesa.

Lungo i pendii vi erano moltissimi macigni e anche degli sterpi spinosi, sicchè con gli uni e con gli altri si poteva innalzare una specie di ridotto.

Si mise dunque alacremente all’opera, accumulando i sassi in modo da formare una parete circolare della circonferenza di quattro metri e alta uno, guarnendola poi con spine per rendere maggiormente difficile la scalata.

Aveva appena terminata quella costruzione, quando vide ricomparire il negro. Era carico come un mulo e penava assai a venire innanzi.

Aveva recato quattro zucche molto grosse, una piena di birra e le altre di acqua, parecchi chilogrammi di patate dolci, un sacchetto di sorgo, della farina di banane e un pezzo di antilope del peso di dieci chilogrammi.

— Mettendoci a razione avremo di che vivere una settimana, disse a Ottone. — Ho poi notato che i boschi che coprono i fianchi della collina abbondano di selvaggina.

— E degli arabi sai nulla?

— Non li ho veduti, eppure sono certissimo che vi cercano.

— Da cosa lo arguisci?

— Ho veduto delle gazzelle fuggire e venivano dalla parte del fiume. Gli arabi con la loro presenza devono averle spaventate.

— E intanto il Germania non ritorna! — esclamò Ottone, osservando il cielo. — Dove sarà andato a finire? È impossibile che Matteo mi abbia abbandonato.