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porta della capanna, senza darsi il menomo pensiero del prigioniero.

— Andiamo — mormorò Ottone. — Approfittiamo dell’assenza degli altri.

Adagio adagio, per non far scricchiolare le foglie secche, raggiunse il tetto del capannone e tenendosi sul declivio meno illuminato, si avanzò in direzione del fiume.

Già non distava che pochi metri, quando verso la cinta che difendeva la stazione dalla parte della fortesta udì delle voci umane.

Si arrestò celandosi fra i rami d’un sicomoro, il quale si curvava sul tetto.

Fra quelle voci udì distintamente quella di Sokol. Il briccone era assai arrabbiato, e bestemmiava e questionava coi suoi degni compagni.

«Sono furiosi perchè il Germania non è ritornato — pensò Ottone. — Allontaniamoci prima che si accorgano della mia fuga».

Superò rapidamente la distanza che lo separava dal fiume, si lasciò scivolare al suolo approfittando di un grosso palo che era stato appoggiato alla tettoia e si slanciò verso la riva.

Stava per gettarsi in acqua, quando si sentì afferrare per la cintura.

— Fermati! — gridò una voce minacciosa.

Il tedesco si volse rapidamente e si vide fra le braccia di un negro. Senza pronunziare una parola alzò il pugno e percosse così poderosamente l’avversario in una tempia, da farlo stramazzare al suolo mezzo morto.

Lo sciagurato non aveva avuto nemmeno il tempo di dare l’allarme.

Ottone, vedendogli brillare alla cintura un largo coltellaccio, una specie di jatagan, glielo strappò, quindi si gettò risolutamente in acqua.

Aveva fatto appena poche bracciate, quando un pensiero orribile gli fece gelare il sangue nelle vene.