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130 | emilio salgari |
Sokol, vedendolo innalzarsi, aveva mandato un grido di rabbia.
— Fuggiti!
— Dove andranno? — chiese l’arabo.
— Non lo so.
— Non abbandoneranno il loro compagno.
— Lo suppongo anch’io — disse Sokol.
— Allora abbiamo ancora la speranza di rivederli presto e forse di catturarli.
— Su qualche luogo ridiscenderanno e noi saremo pronti ad aspettarli — disse Sokol. — Altarik mi ha promesso cinquemila rupie per tutti; due sono guadagnate e voglio intascare anche le altre.
— Andiamo alla stazione?
— Non abbiamo nulla da fare qui. Quando sorgerà l’alba vedremo se il pallone ronzerà da queste parti.
— Che cosa ne faremo del tedesco?
— Lo terremo prigioniero fino al ritorno di Altarik.
— Io avrei desiderato condurlo a Taborah.
— I Ruga-Ruga sono in armi.
— Per il momento sono nostri alleati — disse l’arabo.
— Non c’è da fidarsi di costoro — rispose Sokol.
Comandò a due negri di mettersi in sentinella sulla riva del fiume e di fare a pezzi le parti migliori dell’elefante, poi egli si diresse verso la scialuppa dove si trovava il tedesco.
Imbarcatisi, con pochi colpi di remo raggiunsero la stazione, un lato della quale metteva sul fiume.
Quando tolsero ad Ottone il bavaglio, un grido di rabbia e di stupore gli uscì dalle labbra. Sokol gli stava dinanzi, appoggiato al fucile, ridendo silenziosamente.
— Canaglia! — esclamò il tedesco. — Mi hai tradito!
— È vero, padrone — rispose freddamente il negro. — Sono stato io a farvi sorprendere.
— A quale scopo, miserabile?
— Perchè io sono un uomo di Altarik.