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il treno volante 120


— Heggia — disse l’arabo, — preparati a gettare l’àncora.

— Ci fermeremo presso il fiume? — chiese il negro.

— Sì — rispose Ottone. — Cerca di non far rumore per non allarmare quei colossi.

— Scenderemo? — chiese Matteo.

— Possibilmente daremo loro la caccia tenendoci sulla piattaforma — rispose il tedesco.

Essendo le macchine unte, mise in movimento le eliche e orizzontò il timone in modo da passare sopra gli elefanti.

Intanto il greco aveva preparato le armi, caricandole con palle coniche indurite, essendo la pelle di quei colossi grossa quanto e forse più di quella degl'ippopotami.

Quando il Germania giunse presso il fiume, Heggia lasciò cadere l’àncora, incastrandola fra i rami d’un baobab.

Gli elefanti erano scesi nell’acqua e stavano giocando fra di loro.

Si urtavano cercando di rovesciarsi, succhiavano l’acqua con le proboscidi, gettandosela addosso l’un l’altro e si alzavano sulle zampe posteriori lasciandosi cadere di colpo, in modo da sollevare delle grandi ondate spumeggianti.

Non s’erano ancora accorti della presenza dei cacciatori aerei, sicchè giocavano con piena sicurezza, senza mostrare alcuna diffidenza.

Forse avevano anche scorto il treno; ma probabilmente lo avevano scambiato per qualche nube oscurissima.

— A quale distanza si trovano da noi? — chiese Ottone a Sokol che aveva la vista migliore di tutti. — Che si possa colpirli?

Il negro, che un tempo era stato cacciatore d’elefanti, scosse la testa.

— Non farete altro che spaventarli — disse poi.

— Che cosa ci consigli di fare?

— Volete provare una caccia emozionante?

— Certamente, ci tengo.

— Anch’io — disse il greco.

— Scendiamo e venite con me, ma non più di uno alla volta.

— E perchè uno solo? — chiese il greco.