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scorto il pallone, e dopo il primo sentimento di sorpresa che doveva produrre su quegli animi primitivi la vista di quella grande palla montata da uomini e che correva attraverso lo spazio, si era messa coraggiosamente ad inseguirla, certamente colla speranza di non aver nulla da perdere.
Fortunatamente l’aerostato, quantunque sfinito, semi-vuoto, si manteneva ancora in aria e fuori di portata dai terribili bolas degli inseguitori.
— Che ne dici, Cardozo? — chiese il mastro, che osservava con inquietudine l’avanzarsi dei cavalieri.
— Io dico che, se non troviamo modo di mantenerci alti, riceveremo una pioggia di proiettili, — rispose il ragazzo. — Mi sembrano risoluti d’inseguirci per un bel pezzo, quei pagani dai musi dipinti.
— E non ti spaventano?
— Per ora no; vedremo più tardi, quando il pallone si sdraierà sull’erba.
— Se ci pigliano, ci faranno schiavi.
— Ma fuggiremo.
— Ti sfido a farlo. Quei dannati possiedono certi mezzi da guastare i piedi dei prigionieri in siffatto modo... Aoh!... Carrai!...
— Si cade.
— Lo vedo.
— Toh! Un altro salto! Fra poco urteremo e ci fiaccheremo il collo.
Pur troppo era vero. L’aerostato, che si manteneva a cinquecento metri dai cavalieri, esausto di forze, erasi repentinamente abbassato fino a venti metri dal suolo.
Gl’indiani, che non lo perdevano di vista e che forse indovinavano in quali tristi condizioni si trovavano gli aeronauti, spronarono le loro cavalcature e in brevi istanti giunsero a soli duecento passi.
Per alcuni istanti gli aeronauti poterono contemplarli a loro agio. Erano di media statura, ma solidi, dalla muscolatura potente, dalla pelle indefinibile, essendo quasi interamente coperta da strati di colori che si incrociavano sui