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delle purpuree flor morada, delle gialle romerille e delle azzurre nemofila, che si estendevano per grandi tratti fra le erbe, si scorgevano come delle larghe strisce oscure, dove i fiori apparivano come strappati dal passaggio di una impetuosa tromba, ma che invece additavano il passaggio dei saccheggiatori e dei loro indomiti destrieri.
A mezzodì, quando il pallone cominciava a scendere, il mastro, che guardava con profonda attenzione dinanzi a sè, scorse delle forme non ancora ben distinte, che correvano disordinatamente attraverso la prateria, semituffate fra le alte erbe.
— Carrai! — esclamò, aggrottando la fronte. — Sono cavalli selvaggi che galoppano, o sono gl’indiani? Cardozo, ragazzo mio, stiamo per passare un brutto quarto d’ora.
— Sono indiani? — chiese il ragazzo, senza dimostrare alcuna apprensione.
— Lo temo, — rispose il mastro, che continuava a guardare con viva attenzione.
— Che accoglienza ci faranno? Scommetterei che scambiano il nostro pallone per la luna.
— Ho i miei dubbi, figliuol mio. Lo vedrai, ci daranno la caccia e ci tempesteranno di palle di fucile e di bolas.
— Bah! Io me ne infischio dei loro terribili bolas. Siamo ancora alti, marinajo.
— Ma ci abbassiamo rapidamente.
— Disgraziatamente ciò è vero; ma abbiamo ancora qualche cosa da gettare.
— E cosa mai? La navicella è affatto vuota.
— Te lo dirò quando sarà il momento d’alleggerirsi. Corpo di un treponti sventrato! Sono uomini quelli là!
— Indiani, Cardozo! Sono pronte le armi?
— Sono cariche, Diego, e con buoni confetti.
— Signor Calderon, prendete le pistole, — disse il mastro. — Noi faremo parlare le carabine.
L’agente del Governo, che non aveva perduto una linea della sua calma abituale, prese le armi, si assicurò che erano cariche e se le passò alla cintola, senza aggiungere sillaba.