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della Plata, e ne approfittano per violare le frontiere della Repubblica Argentina e mettere tutto a ferro e a fuoco.
— Io vorrei che giungessero fino a Buenos-Aires.
L’agente del Governo, a quella sortita del ragazzo, si mise a sorridere, ma d’un certo riso che pareva un sogghigno.
— Vi spiacerebbe, signore? — chiese Cardozo, sorpreso di non trovarlo d’accordo, trattandosi di nemici della sua patria.
Il signor Calderon non rispose e volse il capo altrove.
Cardozo e il mastro si scambiarono uno sguardo di meraviglia.
— Si direbbe che non odia abbastanza gli argentini, che tanto male cagionarono a noi, — mormorò il mastro. — Chi mai comprenderà quest’uomo? Ehi! Cardozo, scendiamo; getta qualche cosa.
— Non abbiamo che l’àncora, pochi biscotti, e pochi litri d’acqua.
— Getta l’àncora: sarà un’imprudenza che forse rimpiangeremo; ma bisogna assolutamente innalzarci.
Cardozo ubbidì. Il pallone, che si trovava allora a soli sessanta metri dalla prateria, si alzò bruscamente di seicento e filò verso il sud, avendo incontrato a quell’altezza una nuova corrente d’aria.
Ma anche in quella nuova direzione si scorgevano dovunque le tracce della guerra che doveva infierire nella sterminata distesa d’erba. Ora si vedevano dei ranchos distrutti dal fuoco, ora dei corrals sfondati o colle palizzate rovesciate e schiantate; ora delle tambos, piccole capanne, ove si raccolgono le mucche per mungerle, scoperchiate e coi muri crollati; poi dei chacras — orticelli lavorati, — devastati, colle siepi di agave rovesciate, e infine qua e là dei cadaveri di buoi e di cavalli semidivorati e sui quali volteggiavano in gran numero, disputandosi le carni corrotte, i chimangos, i gallinajas e i carrauchos, specie di avvoltoi che si cibano di carogne. Talora, traverso alla splendida distesa di verbene melindres dai fiori scarlatti, alle macchie