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dileguavano, e per l’aria si vedevano volare e si udivano squittire degli uccelli costieri annuncianti lo spuntare del sole.
Alle quattro il pallone si trovava a sole poche centinaia di braccia dalla costa. Diego, Cardozo e l’agente del Governo spinsero i loro sguardi su quella terra, che pareva si prolungasse.
Poco dopo il pallone abbandonava definitivamente il mare, e filava sopra quella costa sconosciuta che si estendeva a perdita d’occhio verso il nord, il sud e l’ovest, abbassandosi lentamente in forma di conca, coperta qua e là da un’erba assai alta, d’un verde brillante, da grandi mazzi di canne dal fusto esile terminante in un largo ciuffo setoloso in forma di scopa, e da grandi mazzi di carciofi selvaggi.
In lontananza apparivano, qua e là disseminati, degli alberi giganteschi in forma di ombrelli smisurati, ma non una abitazione, non un accampamento, non un essere vivente di qualunque specie. Pareva che quel paese fosse assolutamente disabitato.
Il mastro, che da qualche istante dava segni di una certa inquietudine, osservava minutamente quelle erbe e quegli alberi, come se cercasse nella sua memoria di rammentarsi il loro nome. Ad un tratto si volse bruscamente verso Cardozo.
— Io conosco questo paese, — disse. — Sono scorsi molti anni, ma mi ricordo di aver calpestato questo brillante tappeto che si estende dinanzi a noi e che ci accompagnerà per centinaia e centinaia di miglia.
— Dove siamo? — chiese il ragazzo.
— Vedi là quell’erba corta, robusta, lucente? Si chiama cortadera. Vedi quelle masse arruffate? Sono le paja. Conosco anche quelle ortiche, quei carciofi selvaggi, quegli jaccas, quei cactus, e anche quegli alberi che somigliano alle querce: sono gli ombù, della pampa.
— Siamo sulle coste della Patagonia, adunque? — chiese Cardozo.
— L’hai detto.
— Non mi dispiace, marinajo. Ma in qual punto ci troviamo noi?