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tranquillizzato dalla calma che ancora regnava, a poco a poco chiuse gli occhi e si lasciò cadere a fianco dei compagni, che già russavano sonoramente.

Quanto dormì non lo seppe mai. Un chiarore intenso, accompagnato da un furioso tuonare e da un fischiare indiavolato e da assordanti muggiti, lo strappò bruscamente dal sonno.

Balzò rapidamente in piedi e guardò. Il cielo pareva in fiamme, solcato in tutte le direzioni da lampi lividi, azzurri e rossastri; il vento, scatenatosi improvviso, soffiava con estrema violenza, scuotendo disordinatamente l’aerostato, che fuggiva semirovesciato; in alto, le scariche elettriche tuonavano orrendamente e, sotto, il mare, sollevato a prodigiose altezze, muggiva e rimuggiva, scagliando ovunque nembi di candidissima schiuma.

— All’erta!... — gridò il mastro, aggrappandosi alle corde per non cadere. — L’uragano!

Cardozo e l’agente abbandonarono precipitosamente il loro giaciglio.

— Ah! Che musica! — esclamò il ragazzo. — Il maestro ha dato il segnale di principiare il concerto?

— Dove siamo? — chiese il signor Calderon, aggrappandosi ai bordi della navicella.

— Non ne so più di voi, signore, — rispose il mastro. — Ma mi pare che non siamo su di un letto di rose.

Un colpo di mare s’alzò dinanzi alla navicella e vi lanciò dentro un grande spruzzo.

— Tuoni e lampi! — esclamò il mastro, dando indietro. — Stiamo per inabissarci!

Si precipitò verso l’orlo della navicella e guardò. A soli venti o venticinque passi, l’oceano, sollevato dai furiosi colpi di vento, si rompeva con orribili muggiti, minacciando di inghiottire l’aerostato.

— Presto! Presto! Innalziamoci, o siamo perduti! — gridò.

— Getta la zavorra! — comandò l’agente del Governo.

Una striscia di fuoco passò a pochi passi dal pallone, immergendosi nello spumante oceano, seguìta da una scarica