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— Sta riprendendo le forze, Cardozo.

Carrai! Desidera un bicchierino?

— Non ne ha proprio bisogno. Corpo d’un vascello sventrato! Che oscurità! Non vedo più il mare.

— Ma lo odi brontolare.

— Più di prima.

— Scendiamo forse?

— Tuoni e fulmini! — esclamò il mastro, che si era avvicinato al barometro. — Scendiamo, figliuol mio.

— Brutto segno.

— Siamo a soli quattrocento metri.

— Gettiamo zavorra?

— Risparmiamola per ora: avremo sempre tempo per alleggerirci.

La calma, per alcuni istanti interrotta, era tornata. Il vento dopo i primi colpi di prova era nuovamente cessato e anche i lampi non apparivano più: però i tre aeronauti udivano sotto i loro piedi muggire sordamente l’oceano e sopra le loro teste rumoreggiare di quando in quando il tuono.

L’oscurità era ora tale che non si scorgevano più nè le nubi, nè la superficie del mare: però di tratto in tratto sopra e sotto il pallone brillavano delle misteriose luci che apparivano e scomparivano rapidamente, prodotte forse dalla comparsa di molluschi fosforescenti, che le onde travolgevano nella loro corsa, o dall’elettricità.

Alle dieci l’uragano non era ancora scoppiato e il vento non aveva ancora ripreso i suoi soffi. Cardozo e l’agente governativo, che si sentivano affaticati e volevano essere freschi per la gran lotta, si coricarono sui sacchi, cercando di addormentarsi. Il mastro, rotto a tutte le fatiche, abituato a lunghe veglie, rimase a guardia, tenendo gli occhi fissi sul barometro, che lentamente si alzava, segnando la discesa dell’aerostato.

Ma dopo qualche ora, forse a causa della elettricità di cui era satura l’atmosfera, sia per le precedenti veglie, sia perchè