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appoggiato al bordo della navicella, colle braccia incrociate sul petto, lo guardava in istrana guisa.
— Cosa avete, signore, per ridere a quel modo? — gli chiese con voce ruvida.
— Rido, perchè voi parlate di scendere nel Paraguay, mentre il vento ci spinge sopra l’Oceano Atlantico, — rispose l’agente con voce lenta, misurata.
— È impossibile, signore! — esclamò il mastro. — Poco fa il vento soffiava dall’est e portava verso la costa.
L’agente alzò le spalle e gli mostrò senza dir verbo la bussola.
I due marinai si precipitarono verso l’istrumento e si risollevarono entrambi pallidi, mormorando: — Andiamo al largo!...
Per alcuni istanti un profondo silenzio, rotto solo dallo sfregamento delle pieghe dell’aerostato, che il vento agitava, regnò nella navicella. Malgrado il loro non comune coraggio i due marinai del Pilcomayo si sentivano prendere da una vaga paura, ben sapendo quali disastrose conseguenze poteva produrre quella corsa sopra l’Oceano Atlantico.
— Possiamo fare nulla per ritornare? — chiese Diego all’agente.
— Nulla, — rispose questi senza dimostrare la più piccola emozione.
— Quando scenderà il pallone?
L’agente crollò il capo, poi volse le spalle, si appoggiò al bordo della navicella e guardò altrove.
— Auff! — esclamò il mastro, tergendosi alcune gocce di freddo sudore. — Comincio a vedere buio nella nostra situazione, che poco fa mi pareva tanto rosea. Bah! Dopo tutto eravamo votati alla morte come i nostri compagni rimasti sul Pilcomayo.
— Chissà che il vento cangi, Diego, — disse Cardozo.
— Speriamolo, piccino mio... Dimmi: hai paura?
— No, te lo giuro. Ho provato un po’ di emozione, ma è passata.
— Ciò mi fa piacere, Cardozo. Ora coricati, che devi es-