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— Signor Calderon, — disse il capitano, rivolgendosi verso l’agente del Governo. — preferite morire, o vivere?

— Perchè questa domanda? — chiese l’agente.

— Perchè, se voi rimanete con me, fra un’ora sarete morto, mentre, se salite sul pallone..., chissà, potreste salvarvi.

— Il mio posto è presso il tesoro del Presidente.

— Sta bene, signore.

Un altro colpo di cannone rimbombò sul mare e una seconda palla cadde a pochi metri dal Pilcomayo.

Il capitano gettò uno sguardo sull’aerostato, il quale era quasi interamente gonfiato.

— Togliete il tubo, — comandò egli, — legate l’orifizio e attaccate la navicella.

Quei diversi comandi furono tosto eseguiti.

— Manca nulla? — chiese poi, volgendosi verso gli ufficiali.

— Nulla, signore, — risposero. — Armi, viveri, vesti, zavorra sono a posto.

Un’altra palla partita dalla fregata attraversò il ponte dell’incrociatore, sfiorando questa volta il pallone.

— Imbarca! — comandò il capitano con voce un po’ commossa.

L’agente del Governo, mastro Diego e il giovane Cardozo salirono lestamente nella navicella.

Allora il capitano, levandosi di tasca due grossi astucci, li consegnò nelle mani del mastro.

— Questi sono i milioni del Presidente, — gli disse. — Io li affido alla tua lealtà e al tuo onore.

— Saranno sicuri, mio comandante, — rispose il marinaio con viva emozione.

— Addio, mio valoroso.

— Che Dio vi salvi, signore.

Il capitano fece un gesto. I marinai lasciarono andare le funi e l’aerostato libero s’alzò maestosamente nell’aria, mentre l’equipaggio dell’incrociatore gridava:

— Viva il Paraguay! Viva il Presidente!...