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carbonato pressato nei cilindri d’acciaio. Ormai si librava nell’aria tendendo le funi che parecchi marinai trattenevano. Ancora pochi cilindri, e sarebbe stato pronto a prendere il largo.
Ad un tratto si udì in lontananza una detonazione e una palla venne a cadere a poche braccia dalla poppa dell’incrociatore, facendo rimbalzare l’acqua.
— Ah! Sono qui, — disse il capitano con voce perfettamente tranquilla. — Presto, un altro cilindro, e poi fate attaccare la navicella.
Guardò verso il punto ove era balenato il lampo e scorse a circa sei chilometri un gran vascello, il quale si avvicinava rapidamente. Un po’ più lontano si vedevano altri legni i quali si disponevano in modo da circondare il povero incrociatore.
— Quando saranno a buon tiro, il pallone sarà libero, — disse egli.
Lanciò uno sguardo sul suo equipaggio, che aspettava intrepidamente l’attacco della flotta nemica, poi gridò:
— Mastro Diego!
Il timoniere si fece innanzi, salutando.
— Mio vecchio amico, — disse il comandante, — affido a te un grave incarico.
— Comandate, signore.
— Tu devi salire in questo pallone e tentare la sorte.
— Vi salirò, mio capitano, — rispose il mastro senza esitare.
— Affido a te i milioni del Presidente.
— Sta bene, comandante.
— Giurami che, se tocchi la costa, glieli recherai in qualunque luogo egli si trovi.
— Lo giuro sul mio onore e sulla bandiera della nostra patria.
— Grazie, mio valoroso. Scegli un compagno di tua fiducia.
— Eccolo, capitano, — disse il mastro, additandogli il giovane Cardozo. — Non avrai paura tu, figlio mio?
— No, Diego, — rispose il ragazzo, — anzi ti ringrazio di aver pensato a me.