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rinajo, mentre Cardozo gli si poneva di dietro col coltello in pugno.

L’agente del Governo nel vedersi dinanzi i suoi antichi compagni, che aveva così vilmente traditi e che credeva di ritrovare ancora prigionieri nella casa del console argentino, divenne pallido come un cadavere e tentò, con uno sforzo disperato, di sottrarsi alla stretta che lo strozzava.

— Mi riconosci, traditore? — ripetè il mastro con accento terribile.

— Grazia! — balbettò l’agente.

— Eccola!...

L’acuta navaja del mastro si sprofondò fino all’impugnatura nel cuore del signor Calderon, il quale stramazzò al suolo fulminato.

— Così periscano tutti i traditori! — disse il mastro.

— Fuggiamo, Diego, — consigliò Cardozo.

— Sì, fuggiamo, e cerchiamo d’imbarcarci questa notte istessa su qualche nave.

Ripresero la corsa verso l’ovest e, usciti dalla città, si diressero verso la baja, nella quale si vedevano ancorati numerosi bastimenti. Stavano per dirigersi verso la Sanità onde informarsi se vi era in porto qualche nave con bandiera del Paraguay, quando scorsero un uomo a cavallo, che trottava verso la città.

Un grido sfuggì a tutti e due: — Ramon!

Il cavaliere, che li aveva già oltrepassati di alcuni passi, volse il cavallo e in brevi istanti li raggiunse.

— Diego! Cardozo! — esclamò, balzando a terra. — Ah! Finalmente vi ritrovo!

— Amico mio, siete arrivato in buon punto, — disse il mastro, stringendo energicamente la mano al bravo gaucho.

— Siete arrivato oggi?

— Due ore fa, dopo cinque giorni di galoppo indiavolato, e andavo in cerca del Consolato.

— È inutile cercarlo.

— Perchè?

— Perchè fuggiamo.