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erano armati di fucile e alla cintura portavano, per maggior precauzione, delle rivoltelle di grosso calibro; il terzo era disarmato, e pareva una persona autorevole, forse il console.

— Miserabili! — tuonò il mastro, lanciandosi contro di loro col coltello alzato. — Dove siamo noi? Parlate, o vi uccido tutti e tre.

— In casa mia, — rispose l’uomo inerme, mentre gli altri due puntavano i fucili verso i due marinai.

— E a chi appartiene questa casa?

— Al Consolato Argentino, signori, — rispose quell’uomo, sorridendo tranquillamente.

— Al Consolato Argentino! — esclamarono Diego e Cardozo.

— Sì, o signori.

— Ma non sapete che noi siamo sudditi del Paraguay? — chiese il mastro, tendendo i pugni.

— Lo so, o signori, ed è perciò che io in nome del mio Governo vi dichiaro prigionieri di guerra!

— Miserabile! — tuonò il mastro, facendo atto di slanciarsi contro quell’uomo.

— Vi prevengo che se fate un passo vi faccio fucilare, — rispose l’agente argentino.

— Ma cosa si esige da noi? — chiese Cardozo.

— Il versamento dei milioni destinati al vostro Presidente.

— Ma è un furto, indegno di una nazione che si chiama la Repubblica Argentina.

L’agente alzò le spalle.

— Tutto è buono in guerra, — disse.

— Ma noi siamo qui al Chilì, in territorio neutrale, — gridò il mastro.

— Reclamate presso il Governo chileno, se lo potete.

— Siete un miserabile!

— Delle vostre invettive non mi preoccupo.

— Dov’è il signor Calderon? — chiese Cardozo.

— Credo che sia occupato a pranzare.

— È lui adunque che ci ha traditi?

— Ci voleva poco ad indovinarlo.

— Ma chi è adunque lui?