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verso il nord-ovest, tuffandosi tra le vorticose nubi che correvano all’impazzata fra tuoni orribili.

I tre uomini si trovarono immersi quasi da un istante all’altro in una profonda oscurità che i riflessi dell’immenso incendio non riuscivano a rompere. Solo di quando in quando, in mezzo a qualche strappo aperto dal vento, che fischiava orrendamente, tra il fumo apparivano ai loro occhi le fiamme, che sempre più si allontanavano, o pervenivano ai loro orecchi le grida delle belve cacciate dai loro covi dall’elemento distruttore e le vociferazioni dei Patagoni, i quali galoppavano nella direzione dell’aerostato.

Alle tre del mattino, ossia un’ora dopo, l’incendio era completamente scomparso. Il pallone, che l’uragano trasportava sulle sue possenti ali con una velocità incalcolabile, percorreva allora una regione affatto nuova, una specie di altipiano che pareva s’innalzasse rapidamente.

— Dove siamo mai? — chiese Cardozo al mastro, che si teneva imbrogliato fra le maglie, ma dalla parte opposta, onde non squilibrare l’aerostato.

— Non ne so più di te, — rispose il vecchio lupo di mare. — Ma alla luce di un lampo ho visto che il terreno è cambiato: la prateria sta per tramutarsi in una montagna.

— Che abbiamo attraversato tutto il territorio?

— Non sarebbe da sorprendersi, poichè questo vento è talmente rapido, da stimarsi non inferiore ai centocinquanta chilometri all’ora.

— Vedi nessun riflesso all’orizzonte?

— All’est tutto è oscuro, figliuol mio.

— Dove finiremo mai?

— In qualche luogo cadremo e fra non molto, Cardozo, poichè mi pare che il pallone cominci a scendere.

— A me pare invece che sia il terreno che si innalza, marinajo.

— Forse c’inganniamo tutti e due, con questa diabolica oscurità.

— Marinajo!...

— Cosa vuoi, Cardozo?