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beri, che forse servivano di osservatorio ai puesteros, onde non venire improvvisamente sorpresi dagli Indiani, che dovevansi mostrare di frequente in quei paraggi così vicini alla frontiera patagone. L’agente del Governo se ne servì molto opportunamente per innalzare l’aerostato, mediante una lunga corda tesa fra i rami più elevati, e che attraversava l’estancia in tutta la sua lunghezza. Ciò fatto, fece allargare l’orifizio del pallone e accumulare sotto una grande quantità d’erba ben secca, alla quale venne subito dato fuoco.

Le fiamme, irrompendo attraverso la larga apertura, che i quattro uomini tenevano ben tesi onde il tessuto non s’incendiasse, cominciarono a gonfiare il gigantesco pallone. Pareva che l’operazione dovesse terminare senza incidenti, malgrado i furiosi soffi del pampero, che scuotevano orribilmente l’aerostato, minacciando di lacerarlo contro la cinta, quando nella pianura scoppiarono spaventevoli vociferazioni. Diego mandò un vero ruggito.

— Siamo perduti! — esclamò.

— Non ancora, — rispose il gaucho. — Incaricatevi del pallone voi; io m’incarico dei Patagoni.

Strappò due manate d’erba accesa e si precipitò fuori dell’estancia.

Alcune bande di Patagoni si avanzavano urlando, dirigendosi verso il recinto. Senza dubbio al chiarore dei lampi avevano veduto l’aerostato e, immaginandosi che i loro ex-prigionieri stessero per fuggire colla luna, accorrevano per far prigionieri tutti insieme.

Il gaucho, senza inquietarsi troppo della loro vicinanza, sparpagliò per un tratto piuttosto lungo le erbe infiammate, le quali comunicarono il fuoco ai cactus e ai cardi, che crescevano in grande abbondanza e che erano quasi secchi. In pochi minuti sette od otto colonne di fumo si alzarono qua e là, e poco dopo una cortina di vampe immense si alzò crepitando e illuminando vivamente la notte.

I Patagoni, che non distavano che poche centinaia di passi dall’estancia, si arrestarono di colpo, mandando urla di rabbia.