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di quando in quando si fermavano per scrutare le erbe e per tendere gli orecchi, e spingevano i loro sguardi verso il sud, temendo sempre di veder comparire sull’orizzonte i cavalli degli Indiani.
Parecchie volte, credendo di udire delle lontane grida o un lontano galoppo, si arrestarono, armando i fucili e sdraiando i cavalli in mezzo alle erbe.
La giornata tuttavia passò tranquilla, e alla sera si accampavano in mezzo ad un gruppo di fitti cespugli. Avevano percorso oltre sessanta miglia dal campo patagone fino a quel luogo.
Sicuri di non venire disturbati, nè scoperti, si addormentarono profondamente, dopo un magro pasto composto di charquì e poche uova di struzzo.
All’indomani, rimessi in forze da quel benefico riposo, riprendevano la fuga, dirigendosi sempre verso il nord. A mezzodì, dopo una corsa di altre venti miglia, Ramon, che cavalcava dinanzi, segnalò la tanto sospirata estancia.
— Era tempo! — esclamò il mastro. — I nostri cavalli sono completamente rovinati.
— Ne prenderemo degli altri, — disse il gaucho, che aveva notato in terra parecchie tracce.
— È abitata quella estancia?
— No.
— Sono fuggiti i proprietari?
— Pare che sia così.
— Che siano giunti i Pampas sin qui?
— Non è improbabile.
— Speriamo di trovarla ancora in buon stato.
— Le sue cinte non sono state toccate.
— Voi dunque siete venuto qui?
— Sì, mastro.
— Quando?
— Ve lo racconterò più tardi: armate i fucili, e avanti!