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Hauka, alla testa di una ventina di cavalieri, si gettò sulle loro tracce, lanciando le ultime bolas, che non ebbero effetto; ma, fatti cinque o seicento passi, dovette rinunciare all’inseguimento a causa della stanchezza dei cavalli, che da oltre un’ora galoppavano, senza contare la lunga marcia eseguita nella giornata.

In lontananza si udirono ancora alcuni colpi di trombone e qualche colpo di carabina, poi il silenzio tornò a farsi sull’immensa prateria.

— È finita, — disse Diego. — Ora non si prendono più.

— Meglio così, — disse Cardozo. — Quantunque nostri nemici, mi rincresceva la morte di quei bravi Argentini.

— Ora stiamo in guardia, e, se si presenta l’occasione, scappiamo anche noi.

— Su che cosa speri?

— Lo so io, ragazzo mio.

I Patagoni, ritornati all’accampamento argentino, si erano gettati come un sol uomo contro i quattro forgoni, avidi di saccheggio, senza occuparsi dei cadaveri dei compagni che giacevano in mezzo all’erba in numero non piccolo, nè di quelli dei nemici, che presentavano uno spettacolo orribile, essendo stati uccisi a colpi di bola.

Casse, cassette e barili, contenenti vesti e viveri, furono aperti da quei predatori, che frugavano dapertutto con accanimento senza pari, disputandosi tutti gli oggetti a colpi di pugno e anche di lancia. Un gran grido echeggiò ad un tratto fra di loro e si videro due uomini balzare da un carro, portando fra le robustissime braccia due barilotti della capacità di una cinquantina di litri ciascuno.

Tutti gli altri li seguirono confusamente, compreso Hauka, tendendo le mani e urlando a squarciagola.

— Che abbiano trovato qualche tesoro? — chiese Cardozo, che si era avvicinato, seguìto da Diego e dall’agente del Governo.

— Sì, ma sotto forma di câna, — rispose il mastro, che era diventato raggiante. — Ora assisteremo ad una bella orgia, figliuol mio, e noi ci guarderemo bene dal non approfittarne.