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— Io sono la persona indicatavi dal dispaccio mandatovi da Valparaiso, — disse con voce lenta e misurata.

— Il signor Calderon? — chiese l’agente consolare, muovendogli precipitosamente incontro e stringendogli vigorosamente ambe le mani.

— In persona.

— Dunque il Presidente...?

— È vivo ancora e si prepara alla rivincita.

— Dunque hanno mentito i dispacci qui giunti che lo dicevano fuggitivo su di un legno degli Stati Uniti o nascosto in Bolivia.

— Hanno mentito.

— Si trova ora...?

— Lo ignoro, avendo preso imbarco due giorni dopo la caduta di Assuncion. Un dispaccio che trovai qui, mi dice che sta riorganizzando le sue disperse truppe e nulla di più.

— E voi credete...

— Basta così, signore, — disse l’agente del Governo con rigido accento. — I minuti sono preziosi.

— Desiderate, signor Calderon?...

— Il Pilcomayo è in porto?

— Sì.

— Sorvegliato?

— Una corvetta brasiliana incrocia dinanzi al porto e aspetta che esca per catturarlo.

— Mandate a chiamare il capitano.

L’agente consolare chiamò un servo e gli diede le istruzioni necessarie.

Un quarto d’ora dopo un uomo di statura quasi gigantesca, dalle membra poderose, il viso abbronzato e adorno di due grandi baffi nerissimi, la capigliatura folta, ricciuta e che aveva dei riflessi metallici, entrava nel gabinetto dell’agente consolare. I suoi occhi, che avevano degli strani bagliori e nei quali si leggeva un indomito valore e una fierezza più unica che rara, si fissarono subito con profonda attenzione sul signor Calderon, come se volessero penetrargli fino in fondo al cuore.