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Giunto fuori dell’accampamento, il patagone additò ai marinai una fitta macchia, che poteva chiamarsi un bosco, il quale si estendeva per un lunghissimo tratto, seguendo la riva del Rio Negro.
— Il giaguaro è là — disse. — Che Vitamentru vi guidi e Gualisciù si tenga lontano.
— E che il diavolo ti porti, — concluse il mastro.
Stava per rimettersi in marcia, quando la sua attenzione fu attirata da un cavaliere che si teneva ad una certa distanza. Aguzzò gli occhi, ma, essendo la notte troppo oscura, non riescì a distinguerlo.
— Sarà il capo, che viene ad assistere alla nostra partenza, — disse. — Orsù, in cammino, Cardozo, e non aver paura, ché i giaguari non sono tali animali da affrontare due uomini armati di carabine.
— Non temere, marinajo. Ho il polso fermo e l’occhio giusto.
Volsero le spalle all’accampamento, si misero le carabine sotto il braccio e si diressero verso il bosco colla stessa tranquillità come se andassero a fare una semplice passeggiata, anziché alla caccia del più pericoloso felino dell’America meridionale.
Un silenzio quasi assoluto regnava sulla pampa. Non si udivano che lo squittire di qualche mattiniera tanagra azzurra solcante lo spazio, e il sordo rumore del tuco-tuco, animaletto che abbonda nelle praterie Patagoni e che occupa il suo tempo a scavare gallerie sotterranee, sovente assai lunghe.
Qua e là, in mezzo ai cardi, brillavano vagamente, come se fossero scintille cadute dal cielo, i lurioles, grossi vermi che tramandano di notte una luce vivissima, e si sentivano fuggire i chaunas, grossi uccelli gallipedi, colle ali armate di forti speroni, le dita dei piedi lunghissime e una voce forte e aspra come quella dei pavoni.
I due cacciatori, attraversata la prateria, si inoltrarono sotto il bosco, formato da un agglomeramento inestricabile di boyghe, di carrubi, di guegued e di luma, fra i quali