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— I gilwum mandano palle e fiamme, — disse. — I figli della luna non ne hanno bisogno nel mio campo.
— Che il diavolo t’impicchi! — brontolò il mastro che lo aveva capito. — Ma se posso rubarti i nostri gilwum, come tu li chiami nella tua lingua barbara, ti farò vedere io come se ne serviranno i figli della luna.
— Partiamo, — disse il capo.
La cavalcata si mise tosto in moto, seguìta da tutte le donne e da tutti i fanciulli, ch’erano accorsi per veder mangiare vivi i due marinai, verso i quali ora professavano un profondo rispetto, che non era però esente da un sentimento di misterioso terrore. I figli della luna camminavano liberi in uno spazio sufficiente per non venire urtati dai cavalli, ma completamente circondati, onde impedire a loro qualunque tentativo di fuga: precauzione, del resto, affatto superflua, poiché pel momento una fuga sarebbe stata affatto impossibile.
Giunti all’accampamento, i Patagoni formarono attorno ai prigionieri un vasto cerchio e il capo si avanzò solo fino ai figli della luna, i quali, non sapendo di che trattavasi, cominciavano a ridiventare inquieti.
— Che i potenti figli del cielo si corichino, — disse, indirizzandosi a Cardozo e al mastro.
— E perché, o capo? — chiese il lupo di mare.
— Perché non dovranno più mai lasciare il capo Hauka e le sue genti.
— Cosa vuole quel volpone? — chiese Cardozo.
— Ne so meno di te, ragazzo, — rispose Diego.
— Pretenderebbe forse che noi vivessimo sempre coricati? Vecchio mio, bisognerà adoperare la forza.
— Mi hanno capito i figli della luna? — chiese il capo con una certa impazienza.
— Obbediamo e stiamo a vedere, — disse Diego. — Vedo che il signor Calderon è tranquillo: segno che non corriamo pericolo alcuno.
I due marinai si coricarono. Subito sei vigorosi guerrieri si fecero innanzi e li afferrarono per le braccia e per le gambe, impedendo a loro di fare qualsiasi movimento.