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di penne di rhea, trattenuto da grandi spilli d’argento e da spine di carruba.
Il suo corpo era quasi interamente imbrattato di terra ocracea rossastra, punteggiato di nero, e sulle braccia aveva parecchie linee azzurre parallele che parevano prodotte da un tatuaggio fatto di recente. Anche il suo viso era coperto di pitture disposte a macchie bianche e nere.
Parecchie collane, formate da certe ossa che parevano vertebre di serpenti, completavano quel bizzarro abbigliamento.
— Cardozo, — disse il mastro, che sbarrava tanto d’occhi, — chi è mai quell’uomo lì?
— Quello che ci ha salvati, suppongo, — rispose il ragazzo, che si stropicciava i fianchi scorticati dai denti dei mondongueros.
— Che sia lo stregone bianco?
— Il signor Calderon?
— Lui o un altro: poco monta.
— Se non avesse tutte quelle pitture, giurerei che è il nostro agente del Governo, marinajo.
— Ohe! Signor Calderon! — esclamò il mastro. — Se siete proprio voi, degnatevi di dare uno sguardo ai vostri disgraziati compagni.
L’uomo alzò lentamente il capo e disse con voce tranquilla:
— Siete voi? Me ne rallegro.
I due marinai balzarono in piedi, gettando un grido di gioia, e si precipitarono verso quell’impassibile individuo colle braccia aperte; ma egli li arrestò con un gesto.
— Non fate sciocchezze, — disse.
— Ma, signor Calderon... — disse il mastro. — Non riconoscete più i vostri compagni? Eh! Per mille boccaporti! Non m’inganno, no: siete proprio voi, quantunque vestito come un pagano e con uno strato di unto e di minio.
— Sì, sono io, — rispose l’agente del Governo con un risolino secco secco, — e dovreste ringraziare queste pitture e questo barocco abbigliamento, ai quali dovete la vostra vita.