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capitolo xi. — il campo degli apaches. 211

Ritornò nella foresta, temendo di venire scoperto dalle sentinelle o da qualche esploratore, e condusse i suoi compagni nel fitto d’un gruppo d’alberi, circondati da alti cespugli.

Mandò due uomini a vegliare nei dintorni della macchia per non venire sorpresi, poi disse:

— Ascoltatemi, marchese: tentare un colpo di mano sull’accampamento, come vedete, è impossibile: poichè sarebbe lo stesso che esporci tutti ad una morte certa. Se avessimo raggiunti i rapitori, le nostre armi avrebbero avuto ragione sulle lance e sui tomahwah; ma ora la forza bisogna lasciarla da parte. Vi offro un mezzo, che forse potrebbe riuscire.

— Quale? Parlate, Sanchez; sono pronto a tutto!

— Se i rapitori fossero stati dei Navajoes, vi avrei detto: «tutto è perduto», ma fortunatamente sono Apachi; li ho bene riconosciuti.

— Forse essi sono meno feroci degli altri?

— No, marchese, ma io fo calcolo sul vostro nipote o sul capo Grand’Aquila. Quantunque ci troviamo ancora lontani dalla valle Tuneka e dalla Sierra Calabasa, questa tribù deve dipendere da quella della valle, che è la più potente e la più numerosa, e non deve ignorare l’esistenza d’un capo bianco.

Presentiamoci a questi Apachi, spieghiamo lo scopo del nostro viaggio, invochiamo la protezione del capo Grand’Aquila se è ancora vivo, o di vostro nipote, e tentiamo di salvare Gaspardo. Forse potremo riuscire al di là delle vostre speranze.

— E se ci fanno prigionieri, rifiutando di ascoltare le nostre spiegazioni?

— Gli Indiani sono talvolta ragionevoli e ci ascolteranno. Se non riusciremo nel nostro scopo, tenteremo un altro colpo disperato, o morremo colle armi in pugno. Decidete, signor marchese.

— Sono pronto a seguirvi ed a fare tutto ciò che vorrete.

— Badate che possiamo lasciarci la vita!

— Non temo la morte, Sanchez.

— Sta bene: domani ci presenteremo agli Apachi.

— Ma i nostri compagni?

— Siamo pronti a seguirvi, señor, — dissero gli arrieros.