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208 parte ii. — la grande prateria degli apaches.

ed allora raggiunge una larghezza di dugentocinquanta ed anche di trecento metri.

I suoi flutti sono rapidi, essendo il fondo molto ripido e travolgono spesso delle pepite d’oro. Anche nelle sue sabbie si trovavano molte pagliuzze del prezioso metallo.

Fra i cacciatori di prateria, a proposito di questo fiume, corrono delle strane dicerìe. Dicono che presso le sue rive, fra i boschi ed i burroni o sulla cima di picchi inaccessibili si trovino delle grandiose rovine, lavori diroccati degli antichi messicani, dei discendenti di Montezuma, l’infelice imperatore indiano fatto barbaramente abbruciare da Fernando Cortez, il vincitore e anche il distruttore degli Aztechi. Aggiungono, inoltre, che quelle rovine conterrebbero dei tesori favolosi, colà nascosti dai parenti e dai generali dell’imperatore o dai loro discendenti, per sottrarli all’avidità degli Spagnuoli.

Può essere che in queste dicerìe vi sia qualche cosa di vero, poichè in quella regione ora deserta e sterile si trovarono più tardi parecchie rovine veramente grandiose non solo di templi, ma anche di fortezze, ed in queste costruzioni gli antichi Messicani erano famosi e potevano dare dei punti ai più abili architetti europei del 1500.

Il luogo ove erano giunti Sanchez ed i suoi compagni, era deserto. Nè sull’una nè sull’altra riva si udiva alcun rumore, nè fra le piante che le coprivano si vedeva brillare alcun lume, che indicasse la vicinanza d’un accampamento.

— Nulla? — chiese il marchese, che era in preda ad una viva ansietà.

— Nulla, — rispose Sanchez, facendo un gesto di rabbia. — Canarios! Dove si sono accampati quei dannati indiani?

— Che abbiano continuato il viaggio?

— È impossibile, marchese; i loro cavalli non devono essere meno stanchi dei nostri.

— Che cosa facciamo?

— Attraverseremo il fiume, — rispose Sanchez. — Se volete riuscire, bisogna attaccarli questa notte.

— Ma che ci siano proprio vicini?