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202 | parte ii. — la grande prateria degli apaches. |
un’abbondante razione di foraggio, poi risalirono in arcione galoppando verso l’est.
Alle cinque trovarono le tracce della seconda fermata degli Indiani; ma anche quelle ceneri erano fredde, segno evidente che i rapitori avevano ancora un grande vantaggio.
Non si arrestarono e continuarono la corsa, finchè videro che gli animali non potevano più mantenersi in piedi. In quella giornata avevano percorso un tratto di circa sessanta miglia, tratto immenso, se si considera che avevano galoppato sempre fra le sabbie.
— Quale vantaggio credete che abbiano i rapitori? — domandò il marchese a Sanchez.
— Abbiamo lasciato l’ultimo loro accampamento tre ore fa, quindi calcolo di aver guadagnato su di loro dodici o quindici miglia.
— Ma anche quei furfanti vanno con una velocità indiavolata.
— Tutti gli indiani son famosi cavalieri, señor, — rispose Sanchez. – E poi, avranno fretta di giungere alla loro tribù per mostrare il prigioniero.
— E martirizzarlo?
— Senza dubbio, marchese.
— Ma che cosa faranno a quel disgraziato, se non giungiamo in tempo a strapparlo dalle loro mani?
— Gli Indiani son vere tigri, marchese. Nei loro accampamenti si vede sempre un palo piantato in mezzo alle tende e che è destinato ai prigionieri di guerra: si chiama il palo della tortura.
Ogni uomo che vien preso, sia un nemico appartenente ad un’altra tribù indiana od un viso-pallido, cioè un bianco, che per loro rappresenta sempre un avversario, si lega a quell’orribile palo e si abbandona alle squaw.
Queste squaw, che sono le donne, le mogli e le sorelle degli Indiani, sono feroci non meno dei loro mariti e dei loro fratelli.
Dapprima, strappano all’infelice prigioniero la lingua, le unghie e gli occhi, poi si arrestano. Il giorno seguente tagliano a lui i piedi e le mani, abbruciano le sue piaghe, quindi lo coricano a terra e accendono sul suo petto un fuoco.
Mentre il disgraziato urla disperatamente e si dibatte fra le