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196 | parte ii. — la grande prateria degli apaches. |
— Che Gaspardo è stato rapito.
— Dagl’Indiani?
— Sì, señor.
— Lui!...
— Guardate, marchese: ecco qui le tracce di parecchi cavalli sprovvisti di ferri, ed ecco là uno stoppaccio semiarso, che deve essere appartenuto alla carabina di Gaspardo.
— Ma in qual modo volete che sia stato rapito? Aveva un fucile; dovrebbe aver ucciso qualcuno di quei predoni, e non vedo nemmeno una macchia di sangue. —
Sanchez non rispose: egli guardava attentamente attorno a sè, come se cercasse qualche altra cosa. Il suo sguardo acuto investigava le erbe, i cespugli ed i gruppi d’alberi intristiti che si vedevano qua e là.
Ad un tratto si scosse, camminò dritto innanzi a sè e si fermò dinanzi ad un fitto gruppo di magri ontani, ai cui piedi s’alzavano dei fitti cespugli di nocciuoli.
— Guardate... — disse poi, volgendosi verso il marchese che lo aveva seguìto.
— Vedete questo largo solco, aperto fra queste erbe e che si allontana da noi?
— Lo vedo.
— Da che cosa credete che sia stato prodotto?
— Non saprei...
— Allora ve lo dirò io: qui è stato trascinato violentemente un uomo, che prima era stato atterrato.
— E che cosa volete dire?
— Che Gaspardo è stato sorpreso.
— Non vi comprendo.
— Ecco: gl’Indiani devono essersi nascosti in quel gruppo d’alberi. Vedendo passare Gaspardo che inseguiva i tacchini, hanno lanciato un lazo, lo hanno atterrato, e poi, saliti sui loro cavalli, lo hanno trascinato per parecchi metri finchè svenne.
— Lo hanno preso con un lazo!...
— Sì, marchese, e sono certo di non ingannarmi. Gl’Indiani sono abili nel lanciare i lacci, e riducono all’impotenza un uomo anche se è lontano dieci metri.