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184 | parte ii. — la grande prateria degli apaches. |
Speravo di trovare dell’acqua nel Rio Fornace o in quello d’Amargoza e delle piante, ma l’estate è stata assai ardente ed ha assorbito fino le ultime gocce.
— Che cosa possiamo fare? Se non troviamo acqua, domani gli animali non si rialzeranno.
— Lo so, marchese.
— Non vi è alcun’altra sorgente?
— Nessuna, che io sappia.
— Nemmeno un fiumicello?
— Sì, il Rio Mudoy, che va a scaricarsi nel Rio Virgin; ma temo che le sue acque non siano bevibili avendo la propria sorgente in un lago salato.
— E nessun altro?
— Il Beaverdam, che nasce presso la Sierra Boneto e scaricasi pure nel Rio Virgin, ma è molto lontano.
— Che cosa contate di fare?
— Abbeverare il mio cavallo con una parte dell’acqua che ci rimane e spingermi fino al Mudoy. Spero di trovare sulle sue rive, se non dell’acqua dolce, almeno delle piante che me ne procurino.
— Delle piante che danno dell’acqua?
— Sì, señor, e ve ne sono parecchie in questa regione. La jucca che è una specie di asfodelo, le cui radici, spremute, schizzano acqua; i fiori della lyonia o albero del romice e i cactus a bocce. Se ne trovo, possiamo salvare noi ed anche gli animali.
— Durerà molto la vostra assenza?
— Spero di essere di ritorno fra sei ore. Il mio cavallo è vigoroso e lo lancerò a tutta corsa, dovessi aprirgli i fianchi a colpi di sperone.
— Non incontrerete gl’Indiani?
— Se li incontro, mi difenderò, marchese. Tutto si deve tentare per la salvezza comune.
— Andate adunque, e che Iddio vi guardi. —
Il messicano non perdette tempo. Gettò al suo cavallo il poco foraggio che ancora rimaneva, lo abbeverò con un litro d’acqua, raccolse le sue armi, appese alla sella gli otri, e dopo d’aver raccomandato di fare buona guardia, si allontanò verso l’est di gran galoppo.