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156 parte ii. — la grande prateria degli apaches.

brasiliani e il messicano si appostarono presso la galleria, tenendo sottomano le carabine e le pistole.

I brontolii si avvicinavano, e si udivano talvolta gli orsi graffiare le pareti, come se stentassero a passare. Senza dubbio la strettezza della galleria impediva loro di avvicinarsi rapidamente.

Sanchez aveva riaccesa la torcia e l’aveva piantata in una fessura, per scorgerli per tempo per poter mirare con qualche sicurezza.

— Siete pronti? — chiese agli arrieros, che lavoravano con suprema energia.

— Il passo è libero, — risposero i mulattieri, lanciando fuori gli ultimi macigni.

— Fuggite per la gola di levante. Vi raggiungeremo presto. —

In quell’istante, a quindici passi dai due brasiliani apparve il primo orso. Si avanzava penosamente, strisciando contro le pareti che lo schiacciavano, aiutandosi colle robuste unghie.

Scorgendo la torcia, si arrestò, aprendo le mascelle e mostrando gli acuti denti.

— Fuoco! — comandò Sanchez.

Il marchese e Gaspardo lasciarono partire i loro quattro colpi. L’orso emise un urlo terribile che gli echi della caverna ripeterono, e si accovacciò, impedendo il passo agli altri. Sanchez gl’inviò il colpo di grazia col suo rifle.

— In ritirata! — comandò poi. — Quando gli orsi torneranno ad uscire, noi saremo lontani. —

Attraversarono correndo la caverna ed uscirono all’aperto, portando seco le armi e le coperte.

La burrasca pareva allora che raddoppiasse di violenza, quasi volesse impedire la fuga ai disgraziati, minacciati dall’assalto delle fiere. Il vento soffiava con forza irresistibile, schiacciandosi per così dire, fra il Whitney e la montagna di fronte, spazzando la gola con mille fischi e sollevando nembi di neve, mentre dall’alto cadevano, attraverso alla fitta tenebra, macigni ed ammassi di nevischio, che minacciavano di cangiarsi in vere valanghe.

Non nevicava, ma pioveva a dirotto, come si fossero improvvisamente aperte le cateratte del cielo. Non erano goccioloni, erano