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84 | emilio salgari |
— Siamo perduti, Nadir.
— Perchè?
— Temo che il servo sia salito dal principe.
— A quale scopo?
— Per avvertirlo che Aliabad non era al suo posto.
— Fuggiamo, Fathima.
— Sì, fuggiamo, Nadir.
— Sei decisa?
— A tutto, mio prode amico.
— Fathima, forse fuori di qui ti attende la morte.
— Non ho paura al tuo fianco.
— Sarai dunque mia?
— Tua per sempre.
— Giuralo.
— Su Allah! — esclamò la giovanetta volgendo le mani tese verso la Mecca.
— Vieni adunque sulla mia montagna e che Dio ci protegga!
Fathima sollevò un materasso e levò due pistole colla canna rabescata, adorne di fregi d’oro ed intarsiate di madreperla.
— Possono esserti utili, Nadir — diss’ella porgendogliele.
— Grazie, Fathima. Vieni, o sarà troppo tardi.
Lanciò uno sguardo ad Aliabad, che pareva si fosse addormentato, e si affacciò alla finestra guardando attentamente nel giardino.
La notte era oscura, essendo il cielo coperto da una larga fascia di nubi, e fra gli alberi del parco non si udiva alcun rumore, all’infuori di quello delle fontane. Anche nella vasta città tutto era silenzio; non si udiva voce alcuna, nè alcun passo al di là delle muraglie.
— Vieni — mormorò Nadir.
— Mi farai felice, è vero? — mormorò ella soffocando un singhiozzo.
— Sì, felice come giammai lo fu una donna sulla terra, perchè io t’amo! — esclamò Nadir.
— Eccomi, fuggiamo!
Nadir sollevò la giovanetta fra le robuste braccia e scavalcò il davanzale, lasciandosi cadere sulla cupoletta. Attese un momento rattenendo il respiro, per assicurarsi se nessuno li aveva veduti, poi si aggrappò con un braccio ad una delle colonne, sostenendo coll’altro la giovanetta, e si lasciò scivolare fino a terra.