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Cap. XVIII.

L’insurrezione


Le grida di gioia della popolazione che festeggiava il prossimo matrimonio del re, si eran tramutate in urla di dolore e di spavento. La città, poco prima festosa, stava per essere inondata di sangue e per tramutarsi in un vasto campo di battaglia.

Alle prime scariche dei ventiquattro pezzi che tuonavano sugli spalti delle quattro porte, avevano fatto eco le artiglierie del palazzo reale. Le guardie del re e gli artiglieri che vegliavano sulle terrazze e sotto i porticati, obbedendo senza dubbio ad un ordine segreto, avevano aperto un fuoco infernale contro la folla inerme, che si accalcava sulla piazza plaudendo le schiere delle bajadere ed ascoltando le canzoni popolari di Valmichi.

Quell’uragano di mitraglia, seguito subito dopo da terribili scariche di moschetteria, le cui palle colpivano in pieno, avevano fatto un orribile massacro. La folla terrorizzata, stupita, dopo un istante di esitazione, non potendo credere ai propri occhi ad un così brutale attacco, si era riversata nelle strade adiacenti, passando sopra i morti ed i feriti che gremivano la piazza, riparandosi sotto i porticati, nelle case, nei giardini, agglomerandosi dovunque. Tutti parevano impazziti: si urtavano, si spingevano furiosamente, si accavallavano, empiendo l’aria di urla disperate.

Le guardie del re però continuavano implacabilmente il fuoco: non vedendo più gente sulla piazza, tiravano contro gli sbocchi delle vie dove la folla ancora si pigiava, mentre le artiglierie delle terrazze tuonavano