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174 | emilio salgari |
ora quasi tutta la popolazione della capitale sa che l’erede dello sciàh Luft-Alì è vivo, e lo attende per proclamarlo re di Persia.
— Quando scenderemo a Teheran?... Io tremo per la mia Fathima.
— Fra breve lo sapremo.
— Che l’abbia già sposata lo sciàh?
— Hai udito tuonare i cannoni sugli spalti di Teheran?
— No, Mirza.
— Le feste non sono cominciate adunque, e lo sciàh non si sposa senza pompa.
— Ridiverrà mia dunque?...
— Sì, Nadir.
— E non temi che me la uccida?
— Per qual motivo? Lo sciàh ignorerà lo scopo dell’assalto.
— Ma forse sa che io son vivo.
— E da chi?
— Dal principe Ibrahim. Quando sono caduto, l’ho veduto gettarsi sopra di me per uccidermi.
— Sì, ma per sopprimere il rivale dello sciàh, il fidanzato di Fathima, non per uccidere il figlio dello sciàh Luft-Alì, che egli crede sia morto nell’incendio del padiglione.
— E se qualcuno mi avesse tradito?
— A Teheran scorrerebbe già del sangue ed il supplizio dei ribelli sarebbe cominciato, mentre invece io so che la città è tranquilla.
— Ecco i khan — disse Harum.
Infatti i cavalieri, scortati da duecento montanari, essendo gli altri duecento rimasti a guardia delle gole e dei boschi, giungevano allora dinanzi all’altipiano, alla cui estremità si rizzava, addossata alla rupe della montagna, la modesta dimora di Harum.
Erano una quarantina: alcuni indossavano l’umile veste dei dervis e si potevano scambiare per pellegrini, quantunque dal di sotto delle lunghe zimarre si vedessero spuntare le estremità dei kandjar o delle kemchir e dalle cinture i manichi dei kard (pugnali) o i calci delle pistole; altri erano vestiti da Curdi nomadi ed alcuni da bacals ossia da mercanti o da loutis ovvero mostratori di scimmie. Dai lineamenti arditi, dalle mosse altere e dal gesto si comprendeva però che dovevano essere persone abituate a comandare ed impugnare le armi.