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120 Capitolo X.


nostro palazzo per nascondere dei documenti compromettenti e dei proclami nichilisti per mandarci in galera, miserabile! — gridò Boris, balzando in piedi. — Negalo, se l’osi!... —

L’intendente era rimasto come fulminato. Tentò di parlare, di ribattere l’accusa; solo un suono rauco gli uscì dalle labbra contratte e aride.

L’atman empì un bicchiere di champagne e glielo porse, dicendogli:

— Bevi o non potrai parlare. —

L’intendente lo afferrò avidamente e lo vuotò d’un fiato.

— Ti avverto che simili commozioni sono pericolose talvolta, — disse l’atman.

— Continuiamo, — disse Wassili. — Tu dunque insisti nel dire che non conosci il nome di quella nave.

— No, non insisto più.

— Come si chiama dunque?

— La Tunguska.

— E per dove è salpata.

— Vi giuro, signore, che lo ignoro.

— Dopo la partenza del tuo padrone non hai più ricevuto alcuna notizia da lui.

— Sì, una sola volta.

— Da dove?

— Da Lisbona.

— Mostraci quella lettera, — disse Boris.

— Io non l’ho più.

— Che cosa ne hai fatto? — chiese Wassili.

— L’ho distrutta.

— Io non ti credo.

— Lo giuro.

— Bada che Pugno di ferro ha il braccio alzato, — disse l’atman.

— Se vi dichiaro che fu distrutta.

— Insisti? — chiese Wassili, fissandolo intensamente.

L’intendente esitò a rispondere e guardò Pugno di ferro il quale stava dietro la sua poltrona col braccio in alto.

— Non mi assassinate, — disse.

— Allora parla. Dov’è quella lettera?

— L’ho nascosta.

— Dove? — chiese Wassili.

— In fondo ad una vasca da bagno insieme ad altri documenti.