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116 Capitolo X.


Comincio ad averne abbastanza di questa vita d’orso grigio e d’aver da fare solamente con quei cretini di contadini.

Quando c’era il padrone la vita era ben diversa.

— Vi rifarete quando ritornerà.

— Sì, quando? È andato lontano, molto lontano.

— E perchè? Forse che non si trovava più bene a Pietroburgo?

— Oh sì, molto; ma aveva una paura indiavolata del padre della fanciulla, una paura sciocca poichè sapeva che io avevo fatto le cose per bene.

Dall’esilio non tornerà più mai, più mai.

— E dov’è scappato?

— Lontano, ti ho detto.

— Lo saprete in quale paese.

— Io!... Io non so più nulla.

— Non vi scrive più?

— Non so niente, — rispose l’intendente bruscamente.

— O meglio non volete dirmelo, — disse Olga alzandosi.

— Che cosa interesserebbe a te?

— A lei no, ma a noi sì invece, — disse una voce minacciosa.

L’intendente, spaventato, si era voltato. Un uomo era entrato silenziosamente nel salotto, non essendo stata la porta ben chiusa da Olga e si era collocato dietro la poltrona: era l’atman.

A due passi da lui, seminascosto dietro un enorme vaso di alabastro, si trovava Pugno di ferro, pronto a piombare sul disgraziato Stossel.

— Chi siete voi? — chiese l’intendente, alzandosi con gran fatica, poichè le gambe erano malferme pel troppo champagne bevuto e per lo spavento.

— Il capo della gaida degli Hoolygani, — rispose l’atman, puntandogli contro due rivoltelle.

— Ho... o... o..., — balbettò Stossel, con voce tremante.

— Hoolygani, ti ho detto.

— I ladri!...

— Se così piace chiamarci, sia pure, — disse l’atman freddamente.

L’intendente, che doveva essere dotato d’un certo coraggio, rovesciò la poltrona e si gettò da una parte urlando a squarciagola:

— Samara!... Samara!...

— È inutile che tu ti sfiati, — disse l’atman. — Il tuo servo è nelle nostre mani e non verrà per ora in tuo aiuto.