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236 | capo xxiii. |
ramo e saltellavano, scaldandosi ai raggi del sole, ma quali splendidi volatili!... Tutte le tinte dei tessuti più splendidi, tutti i riflessi metallici, tutti i colori del prisma, si confondevano sulle loro penne.
Erano un po’ più grossi dei piccioni, quasi come una gallina faraona, colla testa giallo-dorato sopra, verde-dorata sotto, il dorso color marrone con ondeggiamenti leggermente dorati, la coda arricciata e di sotto le loro ali sfuggivano, d’ambe le parti, due grandi ciuffi di penne leggiere, morbidissime, giallo-pallide, con riflessi argentei.
In mezzo ai raggi di sole, che facevano scintillare tutte quelle splendide tinte, non parevano più uccelli, ma stravaganti mazzi di fiori cosparsi di pietre preziose.
— Che superbi volatili! esclamò Cornelio. Non ne ho mai veduti di più belli, nè credo che ne esistano in altri paesi.
— È vero, signore, disse Wan-Horn. Questi superano tutti e non hanno avuto torto a chiamarli uccelli del paradiso.
— Ah! Sono i famosi uccelli del paradiso?...
— Sì, signor Cornelio.
— Se sono così belli, non devono esser cattivi allo spiedo, Wan-Horn.
— Sono deliziosi, anzi profumati, nutrendosi di noci moscate e di fiori del garofano, e poi il nostro amico papuaso sarà ben contento di tenersi le penne. Guardate con quali occhi spia quegli uccelli.
— E cosa farà delle penne?
— Ve lo dirò dopo: facciamo fuoco, prima che fuggano.
Alzarono i fucili, mirarono con somma attenzione, e fecero fuoco simultaneamente.
Due uccelli, colpiti a morte, caddero roteando, mentre gli altri, spaventati da quella fragorosa detonazione, fuggivano via come una volata di fiori.
Cornelio s’affrettò a raccogliere le prede, osservandole con viva curiosità, mentre Wan-Horn accendeva un allegro fuoco premendogli più la carne che le penne.
Il papuaso, che pareva contentissimo di quella doppia scarica, preso un uccello si mise a spennarlo delicatamente, mettendo da parte, con somma cura, le piume.
— Ma che cosa vuol farne? chiese Cornelio al marinaio. Forse ornarsi la capigliatura?...