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i prigionieri 235


tere in comunicazione, in tempi anche molto antichi, le genti dell’Europa con quelle dell’India! Infatti anche al tempo dei romani, era un articolo importantissimo e si mandavano in quelle lontane regioni indostane degli uomini ad acquistarlo.

Si pagava però molto caro allora, a peso d’oro e d’argento, ed è rimasto il proverbio: caro come il pepe. Serviva perfino d’imposta ai vinti ed ebbe l’onore di servire di riscatto a Roma.

Il papuaso, Cornelio e Wan-Horn, sternutando fragorosamente e continuamente, essendo il suolo sparso di bacche già mature esalanti acri odori, si dibattevano furiosamente in mezzo a quelle migliaia di tronchi contorti ed arruffati, atterrandoli, recidendoli colla scure o strappandoli per farsi un po’ di largo.

Procedevano però con molta lentezza ed erano costretti ogni qual tratto a riposare ed a tergersi il sudore che li inondava, facendo un caldo insopportabile sotto quegli ammassi di vegetali.

Verso la una però, le piante cominciarono a diradarsi e poco dopo i naufraghi riguadagnavano la grande foresta.

— Era tempo! esclamò Cornelio, fra uno sternuto e l’altro. Là dentro si correva il pericolo di soffocare.

— Fumo come una zolfatara, disse il marinaio. Se non sono cotto, poco ci manca.

— Ci riposeremo un po’ all’ombra di quell’arecche, Wan-Horn.

Stavano per dirigersi verso l’albero, quando videro il papuaso celarsi rapidamente dietro ad un cespuglio.

— Cosa succede?... Che vi siano gli Arfaki? chiese Cornelio, guardando intorno.

— Non vedo nessuno, rispose il marinaio.

Ad un tratto s’abbassò bruscamente, facendo segno a Cornelio d’imitarlo.

— Cos’hai veduto? gli chiese il giovanotto.

— Sta per giungere una splendida colazione, rispose il marinaio. Guardate lassù, su quell’albero: ah! Come sono belli!...

Cornelio guardò in alto e non potè trattenere un grido di meraviglia.

Quindici o venti uccelli si erano posati su d’un grosso