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134 capo xiii.


— Ecco cos’erano i fanali che abbiamo scorti! esclamò. Altro che navi!... Sono due uccelli da preda e forse assai pericolosi.

Infatti a sette od otto miglia verso il sud, si scorgevano non già due uccelli, ma due imbarcazioni, le quali procedevano di conserva, seguendo la stessa rotta della scialuppa.

Non ci voleva molto a riconoscerle per due imbarcazioni d’isolani, essendo ben diverse da quelle che usano gli uomini bianchi. Ognuna era formata da due grandi piroghe scavate in tronchi d’albero, lunghe oltre dodici metri, riunite con una specie di ponte e munite, ai lati, di due bilancieri di bambù per impedire alle onde di rovesciarle.

Portavano entrambe una vela triangolare, di grandi dimensioni, fabbricata con vimini strettamente intrecciati e sul ponte si vedevano parecchi uomini semi-nudi, colla pelle assai nera.

— Sono papuasi, se non m’inganno disse il capitano. Brutti compagni, amici miei.

— Che siano pirati? chiese Wan-Horn.

— Lo temo, vecchio mio e mi pare che cerchino di raggiungerci.

— Che siano molti quegli uomini? chiese Cornelio.

— Una quarantina per lo meno, disse il capitano.

— Posseggono armi da fuoco i papuasi?

— No, ma hanno delle frecce avvelenate col succo dell’upas e che lanciano colle cerbottane, delle zagaglie e certe sciabole pesanti chiamate parangs, che con un sol colpo decapitano una persona.

— Non c’è da scherzare con quei selvaggi.

— C’è da temere, Cornelio, e faremo bene a fuggire.

— Ma dove? Ci raggiungeranno, signor Stael, disse Wan-Horn. Con quelle grandi vele devono filare più di noi.

— Ci getteremo verso la costa.

— Su quella delle isole dello stretto?

— Sei pazzo, vecchio mio!... Quegli abitanti sono peggiori dei papuasi e ci daranno subito addosso.

— Allora su quella della Nuova Guinea?

— Sì, Horn, e cerchiamo di non perdere tempo. Mi pare che quelle scialuppe guadagnino su di noi e se non ci affrettiamo, fra un paio d’ore saranno qui.